MOSTRO…IL DIAVOLO

MOSTRO…IL DIAVOLO – 2003

La prima grande mostra che offre al pubblico il mondo visionario dei fratelli Scuotto. Cento diavoli sugli altari della chiesa di San Severo a Pendino ad incorniciare una scarpa-scultura, simbolo della superiorità della donna sul maligno. Un evento straordinario a cui accorrono migliaia di visitatori e le autorità locali tra le quali il sindaco e il governatore della città.

Mostro il Diavolo

La raccolta del Museo Nazionale di San Martino, oltre al “Presepe Cuciniello”, comprende altre donazioni, tra cui il nucleo dei Pastori deformi che “rivelano l’inclinazione specifica del collezionista volta al recupero di una componente abnorme e malata della natura umana, un filone presente nell’arte del Seicento che menerà fino ai Mostri della Villa Palagonia” ( Cfr., T. Fittipaldi, Il presepe napoletano nel Museo di San Martino, Electa Napoli 1988). Chi sa quale curiosità avrebbero suscitato nell’ignoto collezionista del legato Carrara questi mostri diavoli dei fratelli Scuotto. In esposizione, a partire dal sei dicembre, nella chiesa di S. Severo al Pendino ce ne saranno più di cento. Un caleidoscopio di figure davvero impressionante. Diavoli di ogni tipo, con fogge e atteggiamenti come si conviene alla tradizione. Di un realismo esasperante. Con tanto di corna caprine ritorte in vario modo o con puntuti unicorni o ancora con canini aguzzi su pelle diafana; nasi adunchi, zanne e orecchie a punta, tronchi levigati, mani invitanti, sguardi intensi, accesi, pronti a ghermire e a risucchiare lo spettatore nell’empito dei loro gesti, scolpiti con dotta maestria. C’è il diavolo nero, il diavolo bianco, il diavolo in volo con ali di pipistrello simile al demone etrusco Tuchulca, il diavolo irato, il diavolo lussurioso, il diavolo rosso, il diavolo ermafrodito che si inebria di se stesso, ostentando le sue oscenità naturali con sfacciata protervia: insomma, una campionatura di tutto rispetto, curata nei minimi dettagli. Sembra di essere piombati improvvisamente nel pieno di un girone infernale, e di lontano sentire venire gemiti e sussulti raccapriccianti, e la voce del Pluto di turno che esclama: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!». Nessun artista pastoraro fino ad ora aveva pensato di assimilare una così varia e multiforme folla di angeli decaduti a mostruosità dannate. Al più, la tradizione presepiale settecentesca, da Giuseppe Sanmartino a Francesco Celebrano, da Lorenzo Mosca a Giuseppe De Luca, da Francesco Viva a Francesco Gallo, ci aveva consegnato una umanità derelitta: storpi, ciechi con le cataratte, straccioni, mendicanti, nani deformi, guerci, ecc., una umanità cioè che era l’esatta copia di consistenti frange della popolazione napoletana del Settecento. Altrimenti non si comprenderebbero le istanze rinnovatrici dell’epoca carolina: prova ne è, tra le altre, la costruzione dell’Albergo dei poveri a Napoli dell’architetto Ferdinando Fuga, “un’istituzione che segue di poco l’esempio palermitano (progetto di Orazio Furetto del 1746)” (Cfr., S. Pinto, la promozione delle arti negli Stati italiani, Einaudi editore, Torino 1982), destinata ad eliminare l’accattonaggio dalla capitale. Il gusto comunque per l’abnorme e per il deforme così vivo nel Seicento, e che nel Settecento fu tradotto in forme stereotipate, svuotato di ogni contenuto sociale, ingentilito, di sapore scenografico, veniva da lontano: dalle reminiscenze di un tardo barocchismo che, a sua volta, affondava le radici nella puntigliosa catalogazione del De humana physiognomiae di Giambattista Della Porta, nella Physica curiosa sive mirabilia naturae di Kaspar Schott in cui il gesuita tedesco, in forma seria e scherzosa, “descrive un ordine taumatologico (angeli e demoni, energumeni, mostri, animali esotici, segreti e dogmi, metereologia, rarità fitologiche e fossili)” (Cfr., M. Brusatin, Arte della meraviglia, Einaudi Editore, Torino 1986). Alle descrizioni facevano seguito non disprezzabili incisioni che documentavano vari aborti di natura, ogni sorta di teratoma umano, ogni capriccio o enfasi naturale. Sicuramente gli artisti del Settecento per le loro opere hanno tenuto conto delle indicazioni ed esemplificazioni della pseudo-scienza seicentesca e delle numerose figurazioni pittoriche di autori come lo Spagnoletto e il Bamboccio (celebri, l’Autoritratto in forma di diavolo e il Demone che appare ad un alchimista, entrambi a New York in collezioni private ) o delle sculture di Federico Zuccari, di Cosimo Fanzago e di tanti altri ancora, ma le hanno, per dir così, illegiadrite, caricandole di un pathos consono ai tempi nuovi con una languida trasfigurazione poetica che “spesso scambia forme barocchette grandiose o una ripresa del manierismo cinquecentesco con una nuova e piena conquista di moderna classicità” (Cfr., W. Binni, Caratteri e fasi della letteratura italiana nel Settecento, Garzanti editore, Milano 1968). Del resto, siamo in piena epoca della tanto idealizzata regione greca dell’Arcadia. Il realismo raccapricciante del memento mori di Jacopo Ligozzi si muta nel nostalgico e pensoso atteggiamento presente nel lavoro di Poussin del Louvre, Et in Arcadia ego. Nel quadro dell’artista francese infatti, come ci ricorda Erwin Panofsky (Il significato delle arti visive, Einaudi editore, Torino 1962) “l’elemento di dramma e sorpresa è scomparso… è intervenuto un mutamento fondamentale… I pastori d’Arcadia non tanto ascoltano un terribile monito per il futuro, quanto invece meditano soavemente su un dolce passato. Sembrano pensare meno a sé che a colui che è sepolto entro la tomba: un essere umano che ha goduto un tempo i piaceri che loro stessi stanno godendo e la cui tomba ‘li spinge a ricordarsi della loro fine’ solo in quanto evoca il ricordo di chi è stato ciò che essi sono ora”. A queste istanze trasposte rimandano in qualche modo i pastori della grande tradizione del Settecento-Ottocento napoletano che si configurano “in un accordo preciso e strettissimo fra una mentalità razionalistica e una sentimentalità idillica e patetica, fra senso lieto di un ritmo vitale, nitido, caldo, pauroso di eccessi e di dilatazioni dispersive” (Cfr., W. Binni, op. cit.). Insomma, in una calda quanto vaga rappresentazione sentimentale, espunta di ogni vigorosa denuncia sociale. Di queste ascendenze culturali, e soprattutto dell’arte presepiale del Settecento, la bottega degli Scuotto, avendo i tre fratelli frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di BB. AA., ne è, senz’altro, consapevole. E forse a loro si deve l’idea di recuperare un profilo della grande tradizione artigianale napoletana, quella dei pastori, altrimenti destinata a una stanca ripetizione. Dopo anni di esercizio e di studio, il loro industre lavoro è stato premiato. Le recenti commesse, i circa 150 pastori realizzati “para el belén napolitano de patrimonio nacional” di Juan Carlos di Borbone, re di Spagna, per la reggia di Madrid, la Nativité per il Museo di Frontignan la Peyrade e un’altra Natività per il complesso presepiale del colto e raffinato mecenate Robert Leon di Montpellier (Francia), non sono che alcuni esempi. Da anni infatti la loro bottega è meta di appassionati collezionisti, giapponesi inclusi, che, più che accalcarsi nel cardine di S. Gregorio Armeno, preferiscono visitare La scarabattola, come i fratelli Scuotto hanno chiamato il loro spazio operativo sito a metà del Decumano superiore, dove è possibile ammirare con quanta cura e con quanta passione essi si dedicano a creare dei pezzi unici che, in seguito, rivestiti di broccato o di semplici panni, saranno un godimento per gli occhi di quanti frequentano il loro laboratorio. Qual è la ragione di questo successo commerciale? Che ruolo giuoca la tradizione e quanto invece l’innovazione? Certo, i pastori dei fratelli Scuotto sono un prodotto di alta qualità artigianale. Pezzi unici, ma basta questo a spiegarne il successo? La novità, ed è una novità di fatto, è che essi hanno saputo rielaborare l’universo delle figure presepiali, senza cadere nel formalismo della tradizione, senza cioè conformarsi alla stanca stilizzazione e tipicizzazione dei personaggi. È stato il loro un attento lavoro di ridisegnazione e di aggiornamento. I personaggi sono infatti tratti dal vivo della popolazione napoletana. Prova ne è Giacomino, la loro maschera emblema. C’è nei loro pastori un variare di figure, di atteggiamenti, di felici espressioni visive che ben si ritrova nell’humus della popolazione partenopea, colta nei suoi pregi e difetti. Senza mai cadere nella stanca ripetizione. Insomma i pastori, che Salvatore e i fratelli realizzano, non hanno più nulla in comune con la tradizione, se non le procedure artigianali. Le figure e le composizioni si sono completamente rinnovate. I loro personaggi sono la rappresentazione di un mondo vivo, presente, ricco di sfumature, senza bamboleggiamenti idilliaci o patetici, e, come questa mostra ben documenta, il presepe si è arricchito di una nuova personificazione: il Diavolo. Non è certo, e non solo, il Diavolo della cultura religiosa, ma la trasposizione dei nostri sogni e incubi presenti e futuri: incarna lo scontro tra corpo e potere, tra vita e morte, tra distruzione del corpo e enfatico languore, anche erotico, che ne consegue. Per questo ci atterrisce e insieme ci affascina. Il tema trattato, che a prima vista potrebbe far pensare a uno dei tanti film orrorosi dell’industria cinematografica, è invece senz’altro più vicino alla poetica dell’antipresepe presente nell’ultimo tenero film d’animazione, per l’appunto ambientato a Napoli, di Vincenzo D’Alò. Il Diavolo è, in altri termini, la metafora della nostra società, del malessere presente nelle periferie urbane e delle paure che vivono nei recessi più segreti dell’anima. Per esorcizzarlo, oltre che come memento mori della attuale condizione postmoderna, i fratelli Scuotto, non senza ironia, propongono di schiacciarlo, di metterlo “sotto il tacco”, inserendolo a mo’ di cariatide in una scarpa femminile. Presto vedremo dei diavoli viaggiare, imprigionati, nelle calzature. Alla meraviglia si aggiungerà lo stupore. E, senz’altro, ci chiederemo a quale stilista si deve la novità. Nessun stilista, né italiano né straniero. La novità è dei fratelli Scuotto, di Salvatore, Raffaele ed Emanuele, a cui recentemente si è aggiunta anche la sorella Anna come costumista. Dai pastori, la banda della Scarabattola è passata alle calzature. Una novità che, di certo, impone una spiegazione. Come pastorali, per quanto di alto livello, il lavoro di bottega dei fratelli Scuotto si era già ampiamente affermato. Esigeva però un ammodernamento, un restyling di immagine, spinto fino alle soglie dell’inverosimile. Quale migliore occasione per rispolverare l’immaginario collettivo che, in tutti noi, suscita il diavolo? Da qui la felice intuizione, da un lato, di impinguire la folla dei personaggi che in processione si dirige verso la grotta con la presenza del diavolo tentatore che si rode il fegato perché non fa parte del mistero della Natività, e, dall’altro, di invadere il campo del design e della moda, proponendosi alla produzione seriale. L’ipotesi ha un suo fascino. Dimostra cioè che, per non restare confinati nella etichetta di raffinati artigiani, le capacità manageriali e le idee dei fratelli Scuotto possono, in qualche modo, servire da esempio per non restare abbarbicati alla snervante routine ripetitiva. Un modo per uscirne c’è. Basta cioè creare il nesso tra vecchio e nuovo, e prospettare nuove soluzioni. E difatti il modernissimo mezzo di comunicazione che gli Scuotto hanno adottato per presentarsi e promuoversi, il web, ha generato un inaspettato ed intenso dialogo via e-mail. C’è chi lo considera “un alato spirito notturno”, chi “un vento sottile gelato”, chi “il male, il vizio, la colpa, l’immortalità, la vergogna”. Chi lo riconosce nella “porta che… (apre)… lo scrigno/segreto del cielo”, chi ne “l’uomo che … trama d’uccidere chi non l’ama”, chi in quello che “preda, spoglia, spreme e ingrassa per la sua opulenza”. Chi, ancora, come Chiara Graziani, nel suo racconto l’ha concepito come il Nemico, in perenne lotta con l’umanità femminile. E sarà proprio quest’ultima alla fine a vincere, in virtù della forza che si palesa nell’urlo che precede il concepimento del proprio nascituro. Mai finora Lucifero, questo angelo decaduto, aveva avuto una così varia e molteplice personificazione. L’immaginario collettivo si è sbizzarrito, è stato un coro unanime che ha partecipato all’invito del sito della Scarabattola. La lotta tra bene e male si è mutata così nello sconfinamento della morte nella vita. Per vincere la minaccia del sovrannaturale, l’ansia che l’attuale società tecnologica ci procura, bisogna, come ci suggeriscono i fratelli Scuotto, saper conoscere le derive in cui il maligno si annida, fosse anche nelle scarpe. Migliore suggerimento da artisti-artigiani non poteva venirci. Ciò è maturo segno di intelligenza, oltre che di capacità di lavoro e di lineare progettazione.
Gerardo Pedicini

Testo di Giulio Baffi

Ma sarà poi vero questo viaggio fantastico attraverso fascinose quanto orrorifiche immagini diaboliche? Saranno poi veri i percorsi ed i corpi che sembrano scaturire da antiche scritture malvage? Prendono forma ai nostri occhi immagini imperfette e bellissime, come evocate dalla scrittura di antiche pergamene segrete, da cabale misteriose, da rari privilegi ed esorcismi nascosti per secoli. Si fanno avanti, improvvise visioni che prendono corpo dalla fantasia di giovani artisti. Seducenti e perversi, ecco i demoni pronti all’estrema battaglia di una sensualità incerta e vittoriosa, di un sesso sconfitto. Domino, Mistral, Faust, Soldo, lapsus, Sinco, Demorciso, Dusghenia, Eiduia, Bersyl, Flagromor, Metusete, Raptoreves, Lividus, pronti al saba dell’estremo furibondo piacere. E se fosse soltanto visione febbricitante e notturna che scompare alle prime luci dell’alba? Se fosse l’estrema delle maledizioni del desiderio, impossibile a compiersi, nonostante il sacrificio dell’ultimo dei demoni schiacciato per sempre dal peso che solo la donna sa imprimere al tallone vittorioso? Fantasia visionaria, antico sapere che torna ad illudere lo sguardo sorpreso, che turba con il desiderio proibito. Illusione d’impossibili perfezioni, seduzione di meravigliose imperfezioni. Diaboliche visioni da non dimenticare.
Giulio Baffi

L’artefice ritrovato

Nella concezione presepiale de “La Scarabattola”, intorno alla scena centrale della Natività, a sua volta variamente immaginata e rappresentata, ruota una miriade di personaggi. In questi “caratteri”, vera forza espressiva del “maestro” che li realizza con realismo crudo e talvolta esasperato, sono simboleggiate tutte le istanze, le illusioni, le vaghezze, la disperazione e le ostentazioni di un popolo da sempre sofferente. L’impianto scenico concepito da “La Scarabattola” è tutto un fluire di straordinarie figure mirabilmente scolpite. I maestri della bottega, alla maniera dei grandi interpreti del teatro della vita di questa città che cela alchemici segreti, si calano nei personaggi da essi stessi creati, e pertanto assolutamente nuovi, fino a penetrarli nel profondo. Li conoscono. Li fanno propri e ne diventano padroni in senso assoluto. Sanno così, alla fine di un processo misterioso ed irripetibile, vivere le vite di tutte le loro creazioni e, per questo, sono capaci di dar loro un carattere visibile, di vestirli a dovere, di addobbarne i corpi, di storpiarne o nobilitarne le espressioni e le movenze. Non è, dunque, l’acritica ripetizione di modelli della tradizione, come purtroppo una certa produzione di settore ancora ci sottopone, ma la colta applicazione di un approccio metodologico tradizionale alla realtà contemporanea. I volti, i “caratteri”, i “tipi” delle loro figure sono quelli della folla chiassosa e caratteristica dei vicoli della città. Ci troviamo, finalmente, davanti ad una innovazione effettiva e leggibile che, nel rispetto di un passato di alto livello culturale, ripropone un modus operandi che può, ancora una volta, risultare vincente. L’artigianato moderno, dopo decenni di degrado caratterizzato dal progressivo arretramento del rapporto ideazione-produzione (avvenuto per vari e complessi motivi), teorizza e sperimenta la rinascita mediante la riacquisizione proprio di quell’approccio metodologico di cui si parlava. In questo senso, riteniamo, gli Scuotto e la loro “bottega” possono essere considerati un modello da comprendere e seguire. Il loro operare, talvolta semplicisticamente definito “figurativo”, quasi sinonimo di “superato” in un epoca in cui l’arte è alla disperata ricerca di contenuti e forme, può essere invece considerato addirittura scientifico poiché, aldilà delle scelte in termini di linguaggio espressivo, possiede la ricchezza dei contenuti teorici e delle idee. E’ un lavoro, il loro, che sulla base di un processo di analisi e sintesi raggiunge talvolta momenti alti di autentica poesia. Questa correttezza d’approccio, ed è questo il dato fondamentale, si è rivelata pagante, dimostrando come sia vero che il mercato contenga in sé potenzialità di inserimento insospettabili. Anche per l’arte. A patto, però, sia chiaro, che dietro il prodotto ci sia la credibilità e la storicizzazione del percorso di chi opera. Come dimostra anche l’ultima sperimentazione attuata dal gruppo che, intuendo quanto potrebbe essere fondamentale per l’artigianato in genere e per quello di settore superare gli angusti confini del folklore e della curiosità, ha immaginato dapprima l’inserimento del diavolo, simbolo del male e dell’imperfezione umana, nell’universo presepiale, per poi individuarne le istanze tradizionali-simboliche e ricacciarlo nel mondo. Come? Trasformandolo in elemento decorativo di un accessorio dell’abbigliamento femminile: la scarpa. Operazione, questa, sicuramente forte e provocatoria. Ma portatrice di un suggerimento prezioso: quello, cioè, di sondare con un po’ di coraggio nuove strade per esportare la cultura, anche popolare, della città, al di fuori e al di sopra degli stereotipi, preparandosi ad affrontare adeguatamente l’inserimento in un mercato più ampio ed esigente e a tenere a bada gli assalti di una globalizzazione incolta e sfrenata.
Massimo de Chiara

O’ Riavulo

Che venga a tirarci i piedi e troverà pane per i suoi denti. Noi napoletani ci abbiamo sempre scherzato, lo abbiamo schernito, rappresentato, cercato ma evitando di prenderlo troppo sul serio ci siamo tenuti al riparo dalle sue trappole più atroci. Nella nostra tradizione, non si tratta propriamente del Maligno, ma di un monito ad una rilassatezza morale che siamo abituati a riconoscerci: è il senso di colpa per aver anteposto il piacere al dovere, la cura alla prevenzione, il presente al futuro. Cos’è il Pulcinella, se non una vittima cosciente e divertita di ogni tentazione? Avrà poi tempo e modo di curare il male che verrà o di scaricarne la colpa e le conseguenze su qualche altro, diventando tentatore o ingannatore a propria volta. Disillusi per nascita da legioni di lingue mielose che ci hanno promesso da secoli un riscatto in cambio dell’anima, ai napoletani un diavolo non sembra cosa rara o terribile. Quanto agli incidenti quotidiani, sarà il diavolo che ci ha messo la coda, ma resta un’ottima occasione per giocare un terno. Insomma, non tutti i diavoli vengono per nuocere.
Giancarlo Maresca

PHOTOS Work in Progress

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