SCU8 MANINARTE
SCU8 MANINARTE A CASTEL DELL’OVO – GIUGNO 2009
Senza dubbio la più ambiziosa mostra evento dei fratelli Scuotto, che li sottrae alla univoca definizione di artigiani per introdurli a pieno titolo nell’arte contemporanea. Nella prestigiosa sede di Castel dell’Ovo, gli Scuotto, ribattezzati dal maestro Roberto De Simone collettivo “SCU8”, danno vita ad una eccezionale rivisitazione parodistica dell’arte contemporanea, con citazioni ironiche e rivisitazioni poetiche. Per l’occasione il critico d’arte Luca Beatrice ne cura il testo critico e non esita a considerarli i degni eredi della Transavanguardia.
Arte della commedia o commedia dell’arte?
Pensare di trasferire storie di fantasie erotiche e conturbanti da Parigi a Zagarolo, è un po’ come credersi eroi per aver affrontato un capitone in mare aperto fingendo di averlo confuso con uno squalo. Dalla capitale francese ai castelli romani, dal terribile predatore dei mari al viscido anguillone: la sostanza è sì la stessa, ma sostanziale è il cambiamento di forma.Lo slittamento semantico e il gioco sul senso è l’antica arte parodistica che ha permesso e permette di sconvolgere il contenuto burlandosi del suo assunto.
Franco Franchi diventa così la controfigura di Marlon Brando dissacrandone il mito pressoché intoccabile del noto capolavoro di Bertolucci, “Ultimo tango a Parigi”.La parodia sembra essere il destino implicito per qualsiasi invenzione dello spirito destinata a misurarsi con il successo e il consenso. Dal cinema alla letteratura, dalla politica all’arte, non vi è cosa che travalichi il pubblico di nicchia di cui non esista una versione “vulgata”, dove alcuni particolari slittati di senso fanno acquisire all’intera operazione un significato altro. Con “Ultimo tango a Zagarolo” si trasforma il “sacro” in “profano” e la drammaticità in assurdo, la magia della Ville lumiere si converte nelle sconosciute colline della provincia laziale. Un Franchi in excelsis che certo non supera Brando per veemenza, ma che definisce, in quella che è da considerarsi la parodia più famosa e riuscita del cinema italiano, un genere cinematografico destinato al successo.
Lo ha ben spiegato Michail Bachtin in ambito letterario: la parodia è da intendersi come un procedimento che porta allo “scoronamento dell’eroe” e che deve presupporre, per sua natura, la piena conoscenza e coscienza del soggetto o del tema che si intende declassare. Non esiste un buon attore drammatico se l’anima non sa essere comica, non esiste ironia se di base non c’è intelligenza.Per Bachtin il rovesciamento di senso, la realtà che si ribalta nel suo contrario, non solo deride se stessa, ma permette la presa di coscienza di mondi alternativi, seppur nell’evidenza che “scoronando” il mito, altro non fa che confermare la fama dell’originale. Le radici di un modus operandi che si è fatto nella storia sistema valido e pressoché unico di derisione pacifica dei poteri costituenti e delle idee dominanti è da ricercarsi nella lontana formula teatrale introdotta dai commediografi latini Plauto e Terenzio, la fabula palliata, o commedia latina, nella quale, diversamente dalla tragedia, la situazione equivoca era espediente per soprassedere al dramma e ne rappresentava la possibile assoluzione.La Commedia dell’arte, che nella tradizione italiana e non solo ha condotto le fila di più di trecento anni di storia del teatro, è la prima risposta liberale all’ottenebrante potere conservatore del Teatro di corte. I commedianti, che non hanno origini nobili, trovano così il modo di sbeffeggiare rituali e formule, senza per questo essere accusati di tramare alle loro spalle. Sono nati i personaggi-icone della commedia burlesca: il padrone che schiavizza i suoi sottoposti – Pantalone – il giullare umile e goffo capace di innamorarsi – Arlecchino – o l’uomo di scienza, deriso per le sue asserzioni da “cultore della sapienza”- il Dottore. I caratteri specifici dei soggetti si esasperano, accade nel teatro come nel cinema. Nel terzo film di Sergio Leone, “Il buono, il brutto, il cattivo”, le caratterizzazioni dei personaggi sono i travestimenti di “maschere” caricaturali, alter ego di una deformazione estremizzata di valori sia estetici che sociali.E accade nelle arti visive. Camuffando capolavori antichi e recenti con maschere e icone derivanti dalla cultura neo-pop, si può mischiare lo snobismo con l’irriverenza, il colto con il volgare. L’arte ama disertare il tragico per rifugiarsi nel burlesco. Ne sono un esempio le sculture-installazioni di papi e dittatori di Maurizio Cattelan, maestro del “dadaismo comico”, o le confuse allusioni proposte dai lavori di vedovamazzei: si gioca, si scherza e si ironizza scompigliando significati e significanti.
Ma veniamo ai Fratelli Scuotto, che la lezione di Eduardo De Filippo la conoscono bene: “pericolosa” come ama definirla la spalla del teatro comico italiano, ma “per tutti noi, giacché i problemi di cui tratta riguardano la nostra vita e quella dei nostri figli”, l’arte della commedia (dall’omonimo testo teatrale scritto dall’attore/commediografo nel 1964) è molecola costituente del dna culturale dell’italianità, e quintessenza della poetica della famiglia Scuotto.Ed è con spirito farsesco – tutto nostrano – che l’opera forse più drammatica dell’intero novecento pittorico, quell’orrore figurato da Pablo Picasso in “Guernica” (1937), può sciogliersi in una parodia concettuale, senza rischiare di scadere nel ridicolo o peggio ancora nel patetico, in questa nuova versione abitata com’è da corni, diavoli, trionfi della morte e scheletri carnevaleschi.È trattata allo stesso modo la pittura del padre del surrealismo belga, René Magritte, la cui critica resta peraltro ancora irrisolta (un pessimo pittore o un saboteur tranquille che amava interpretare il reale fino a sconfinarlo in un dubbio ontologico?), irriso con le sue stesse carte inserendo nell’escamotage del “quadro nel quadro”, elementi di disturbo che esorcizzano quel mistero del reale da lui tanto ricercato. Parodia stilistica e citazionismo esplicito.La ricetta dei Fratelli Scuotto è questa e si ripete in virtuosismi immaginifici che incettano nell’universo iconografico dell’arte, da Andy Warhol a Rodin, da Damien Hirst a Brancusi: l’artigianalismo degli Scuotto non ha barriere di tipo metodologico, perché la manualità, certosina, del “fatto in casa” e la maestria tecnica che li caratterizza, lasciano aperta la strada a ogni tipo di formalismo, pittorico, scultoreo, concettuale. Diversi e intricati i registri culturali, visivi e tematici che alimentano il corpus poetico del loro lavoro. L’arma della citazione in primis, con la riproposizione di soggetti iconici, assemblati e diversamente riletti, permette uno spostamento semantico di senso e colloca a pieno titolo il loro lavoro nella categoria del “contemporaneo”. Si veda l’ambiguità dello strano Andy Warhol, il soggetto del Vesuvio “lichtesteinizzato” dai Fratelli. Il dipinto originale, una fra le diciotto della serie “Vesuvius by Warhol” esposte alla mostra “Terrae Motus” nel 1985 – appena qualche anno dopo il terribile 23 novembre 1980 che devastò l’Irpinia- viene preso in prestito e traslato nel segno di Lichtenstein, altro genio pop, perdendo così la sua valenza. Un Warhol che senza Warhol non ha ragione d’essere. Così il capitone fatto a pezzi – “Capitone” – altro non è se non “il fu” squalo del controverso artista della generazione yBa, Damien Hirst, e il batacchio animato “Pulcicorno” è solo il ricordo – spermatozoico – del celeberrimo bronzo di Brancusi. Il romanticismo, anacronistico, della struggente scultura de “Le baiser” di Rodin torna invece a vivere in un connotazione gay: nel “Bacio” degli Scuotto, l’amante Claudel – tormentato riferimento passionale che ossessionò la figurazione di Rodin – diventa un uomo, a prefigurarne un’ipotetica versione omosessuale. La provocazione è esplicita ed esclusivamente nei soggetti, perché non slitta di significato quello che resta a tutti gli effetti un gesto d’amore (al pari di quanto fatto da Jeff Koons nell’autoritratto del 1993 esposto alla discussa mostra “Made in Heaven” che lo immortala con la moglie Ilona Staller, in arte Cicciolina, nota star del cinema porno italiano). Ancora, i cumuli e les poubelles (spazzature) di Arman o i tableaux-pièges (quadri-trappola) di Daniel Spoerri, nell’ottica del Nouveau Réalisme, dove all’ordine del giorno erano “l’ammucchiamento imposto come enunciazione di un principio fondamentale” e “l’oggetto che contiene in sé la morfologia esatta del suo ammassamento” (Pierre Restany) sono riproposti in barattoli claustrofobici contenenti miniature e resti di sculture che provengono dal laboratorio creativo dei Fratelli Scuotto. Come a dire – con il permesso concesso dagli assunti parodistici – l’arte è come il maiale: non si butta via niente!
Ma c’è una terza chiave di lettura dell’opera degli Scuotto: tutta l’iconografia del sacro e del profano che risiede nel gestire i tratti di soggetti aulici con una fisiognomica più che ridicola. Diavoli appena usciti dall’inferno surreale di Hieronymus Bosch o dannati danteschi che sono ancora una volta paradosso dello status che dovrebbero rappresentare? Le stesse maschere della commedia dell’arte – caricatura stilizzata del volto del demonio – sono utilizzate in chiave ironica e del tutto dissacrante al fine di farsi contenitori per nuove immagini e veicoli di un pensiero contemporaneo che agguanta il passato e lo catapulta nel presente. La cultura cattolica, manifesta e partecipe, è filtrata dallo sguardo dell’artista e il divino, passando per le arti visive, si profana. È l’arte della “grottesca” (Andrè Chastel) dove convivono elementi mistici con suggestioni esoteriche, e l’assurdo si mischia con il kitsch senza però soverchiare le regole del gusto. Sicuramente i “Mostri di Bagheria” – le sculture che adornano il giardino e della siciliana Villa Palagonia (meglio nota come Villa dei Mostri): gnomi, centauri, forme antropomorfe, demoni e figure mitologiche deformi – sono stati il recipiente da cui attingere per un immaginario fantastico, certo un po’ ancorato nel medioevo oscuro e chimerico, così come lo sono stati gli ossari conservati al Cimitero delle Fontanelle di Napoli per Rebecca Horn che “adornò”, Piazza Plebiscito di 333 teschi (con tanto di aureola!). Tralasciamo ogni divertita considerazione sui gesti apotropaici di quei cittadini che per abitudine si recano a bere un caffè nelle vicinanze… Se nell’opera “Pinocchio” di vedovammazzei è la radiografia di un cranio con una deformazione ossea a essere letta dall’immaginario sociale come radiografia di Pinocchio per la protuberanza nasale, sulla stessa strada si muove “Pulcinella velato” dove la connotazione dei lineamenti del viso – il naso sporgente della maschera napoletana – allontana il pensiero comune dall’immagine dell’originale monumento funebre di Ilaria del Carretto, realizzato da Jacopo della Quercia, nel 1406 e conservato nel Duomo di Lucca. L’ironia vince sulla storia, e il divertissement – ilare e scherzoso – sulla pesantezza della tragedia. I Fratelli Scuotto si possono allora considerare originali eredi della Transavanguardia, nella modalità di un amabile virtuosismo manuale e di uno spirito giocoso che si contrappone al rigore minimalista e concettuale dell’Arte Povera. Il loro concettualismo è infatti esplicito e non richiede intermediari critici: la satira sottesa si fa paradosso evidente. Nella loro estrosa poetica si intravede quello spirito da “Commedia all’italiana”, che si identifica con il cinema di Monicelli e di Risi, nel teatro di Goldoni e nella comicità del maestro Totò. “Se la Francia ha avuto Marat –spiegava Achille Bonito Oliva esattamente trent’anni fa- l’Italia ha avuto Totò e la commedia dell’arte”. L’abilità tecnica poi è carta vincente, perché la cura e la dedizione con cui seguono l’esecuzione di ogni loro lavoro prende le distanze da formule stereotipate di produzione seriale di idee. Se Jeff Koons o Damien Hirst delegano, i Fratelli Scuotto realizzano. Caratteristica preziosa e rara del loro modus operandi è l’artigianalità infatti, che sottende l’idea e che non l’abbandona mai. Gli Scuotto sono moderni cesellatori di manufatti postmoderni realizzati come una volta, nelle antiche botteghe artigiane. Quando l’arte sembrava sopravvalutata dal pensiero piuttosto che dal fare, ecco che il limite tra le due componenti creative si sfuma fino a formulare un’unisona definizione di arte/artigianato: dove finisce l’una comincia l’altro.
Luca Beatrice
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PHOTOS by E.Scuotto
TESTO De Simone