PULCINELLARIFAVOLA

PULCINELLARIFAVOLA – 2004

Secondo grande evento de La Scarabattola ispirato al mondo delle favole. Personaggi vecchi e nuovi prendono vita dall’argilla e si incrociano in una forsennata caccia alla maschera di pulcinella, rubata dal diavolo. Ancora alla chiesa di San Severo al Pendino una folla di spettatori assistono ad uno spettacolo indimenticabile, che da Napoli incanterà altre città come Roma, Milano, Barcellona.

Testo di Stefano de Matteis

Il presepe è l’incanto della Nascita. E’ il mondo sospeso. E su questa sospensione lavorano da qualche anno i fratelli Scuotto (due scultori, una vestiarista e un manager-organizzatore) della Scarabattola. Hanno cominciato a farsi le ossa con le natività – pensando più a Caravaggio che a Cuciniello –, con le tavolate imbandite – più lavorando di memoria famigliare che di iconografia d’antan –, con i vari personaggi che hanno facce da vicolo, ma con uno stile che mescola scultura e artigianato. Sì, è vero, alle spalle hanno l’accademia e la scultura, l’attenzione agli artisti e alle opere; cui si aggiunge l’artigianato e la bottega, quindi la pratica a costruire “secondo tradizione”: ma se tutto questo non si dimentica, non si va avanti, si resta infognati nelle scuole, nelle tendenze, nelle mode o nelle occasioni che ti offre il mercato del momento. Ancor più facile, se si è napoletani, essere tentati dal mercato spicciolo, soprattutto se si vive nel centro antico che, a Natale, è la pentola ribollente di quanto di meglio e di peggio si produce per il presepio. E invece, grazie a questo strano miscuglio di ambizioni e mestiere, di studi e di pratica, il sogno diventa realtà: quello di fare sì dei “pastori”, ma in modelli unici, dando sfogo alla fantasia, all’arte e all’invenzione. Con la spavalderia della gioventù, i fratelli Scuotto si sono buttati a capofitto in un’impresa donchisciottesca: mescolare scultura, conoscenze artistiche e tradizione. E questo ha dato i suoi frutti nella produzione di pezzi inediti, e ricercatissimi, modellando dal nulla facce nuove e corpi mai visti, spesso lavorando su commissione o elaborando proposte inaspettate. La prima ha preso corpo lo scorso anno. Avendo fatto del presepio la palestra, il laboratorio, il trampolino di lancio, la logica artistica, che non segue quella lineare, li ha portati a ragionare sull’assenza, su ciò che nel presepe non c’è: sul diavolo. E il diavolo ha rappresentato un affondo nel barocco. E forse non è un caso che sempre quella stessa logica ha guidato Salvatore ed Emanuele, proprio mentre erano impegnati nell’allestimento della prima mostra, a pensare, parlare, raccontare favole, e a immaginare una loro possibile realizzazione. Ma certo, non avrebbero preso “una” favola da mettere in scena, anzi, conoscendoli, presumo che la loro immaginazione vulcanica facesse incontrare Cappuccetto rosso e il Gatto con gli stivali, o Cenerentola che scappa con l’orco cattivo. Ora, a cospetto delle favole, i conti si fanno con la tradizione, non con quella imbalsamata della nostalgia del passato, né con quel “popolare” di cui – venuto meno il suo artefice principale, il popolo – nessuno sa più cos’è. Tradizione diventa la libertà della creazione, il dominio della fantasia dove tutto si contagia, si urta e si scontra, esplode, in una specie di crogiolo della postmodernità. Ecco allora che la camicia da notte di re Ferdinando si trasforma nelle mani di Annarella in quella di Totò del Medico dei pazzi; Pappacristiani fa scatenare l’immaginario filmico di Emanuele nel meglio e nel peggio dei film dell’orrore (da Zombi alla Notte dei morti viventi); e nell’artificio di Salvatore, Pulcinella perde la sua fame atavica e la quasi totale dipendenza dai bisogni essenziali e primari per votarsi al sacrificio. Con la complicità di Chiara Graziani, hanno saputo ridare quella leggerezza considerata infantile, quella purezza senza sesso e senza infamia, pronta comunque ad affrontare i riti di passaggio fondamentali della vita. Le scarabattole diventano così il luogo della memoria, delle combinazioni e delle invenzioni possibili, delle libere associazioni. E poi, vivaddio, “testimone” di tutto questo è Giacomino: non uno dei soliti protagonisti del bazar mediatico-politico che annualmente prendono il posto tra i pastori del presepe, ma un omettino anonimo del quartiere che entra in gioco come il rappresentante dell’ingenuità per antonomasia, come uno dei tanti sapienti-stolti che popolano la letteratura (popolare e non). E’ ovvio che nulla nasce da nulla. Ed è anche facile dire basta a Pulcinella. Sicuramente a quello trito e ritrito. Il più bello che io ricordi è quello (narrato, mi pare, da Vito Pandolfi) interpretato da Petrolini: un Pulcinella stanco, vecchio, stufo, ca nun ce ’a fa cchiù. Oggi, dopo le tante metamorfosi – più o meno utili –, ci troviamo di fronte a un incisivo travestimento di segno molto preciso e diverso da quella scatola vuota che è oramai la maschera che vediamo troneggiare in ogni pizzeria o in ogni boutique. Che Pulcinella abbia perso ogni ragione è scritto nell’incipit: il diavolo gli ha rubato la maschera. Una metafora fin troppo evidente dello stato in cui versa. E tutta la storia si sviluppa nel viaggio intrapreso per il possibile recupero e della maschera e del senso che questa può ancora avere. E naturalmente, come in ogni fiaba che si rispetti, questo viaggio è costellato di prove e ostacoli da superare. Fino al finale travolgente. Che vede Pulcinella riuscire nel gesto più altruista, nel sacrificio per l’altro: per fondare una nuova comunità e lanciare un nuovo segnale per il futuro. Questo sacrificio inaspettato, e la conseguente rinascita, è realizzato con una tessitura che procede a ritmo sincopato, quasi jazz, come un assolo di Charlie Parker, e che mescola Pulcinella alla storia di Colapesce, all’”ovo” virgiliano dell’omonimo castello, alla purezza e l’ingenuità di Giacomino, nel tentativo di salvare il mondo. Ciò che impera nel finale è la paura della fine: fine del sangue (con tutto il corollario dei santi cui si richiama), del mare, della maternità e della natura che non è più materna ma nemica. Il nuovo millennio, la cui nascita è affogata nel sangue, richiede grandi sacrifici per rinascere. Per tutte queste funamboliche avventure fanno da “canovaccio” le favole di Chiara Graziani, che a sua volta pesca a piene mani dal repertorio favolistico trasferendolo in terra di Campania e in orto pulcinellesco: come il Pulcinella “genio” della buatta di pomodoro, con un Aladone la cui unica mira è il denaro e il possesso. Il tutto combinato da quattro ragazzi e una scrittrice di fiabe tanto false da risultare vere. Anzi, da quattro scanzonati ragazzi (più una pittrice, un assistente, un aiutante, un fotografo, un designer, un padre attento e partecipe e una madre a casa a cucinare per tutti) che, in un buco di negozio preso per scommessa, mettono le proprie ambizioni artistiche a servizio di un’arte antica. Che, come primo passo, non si potevano accontentare della finta e stantia riproduzione modellistica dei calchi rifatti su quelli di un tempo. Si sono invece messi in gioco sperimentando, cercando di superare il limite del già noto, conosciuto e confermato, per immaginare modelli tanto nuovi e tanto diversi da essere più parenti a quelli di trecento anni fa che non le stanche riproduzioni che ancora imperano. Ed è questa forza estranea e partecipe, furba (come può esserlo l’arte) e attenta agli umori di oggi, che riesce a darci una qualche indicazione sui tempi attuali. Ma Pulcinella può anche questo, se si sa ascoltare la sua voce profonda e sentire il bisogno di costruire con la gioia e la felicità ingenua e “pulita”, per appropriarsi di un passato di cui non vergognarsi ma a cui dare nuove finalità e ragioni.
Stefano de Matteis

Testo di Giulio Baffi

“Così Pulcinella attraversa la nostra storia, ed accompagna la nostra vita. Maschera in cui trovare rassomiglianze impensate. Lieta moltiplicazione ed imbronciato delirio, passione e tradimento, presenza e fuga. Ci accorgiamo all’improvviso che il suo volto misterioso ci appartiene. Gelosi, ne cediamo i frammenti ad altre memorie per un’instancabile successione esaltata”.
Giulio Baffi

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PHOTOS by Sergio Siano